L’estate dei lunghi complotti

«Lei [Mario Monti] non smentisce che, nel giugno-luglio 2011, il presidente della Repubblica le ha fatto capire o le ha chiesto esplicitamente di essere disponibile se fosse stato necessario?». «Sì, mi ha dato segnali in quel senso»

Finalmente lo sappiamo: Monti, l’uomo della provvidenza, e il suo tweed non sono stati calati dal cielo per risollevarci dalle nostre miserie, ma sono il frutto di un lavoro di consultazioni da parte del Presidente della Repubblica iniziato addirittura nel giugno del 2011, almeno cinque mesi prima della sua nomina. L’estate turbolenta che avrebbe portato alle dimissioni di Berlusconi era appena iniziata e il Cavaliere, ricordiamolo, era a capo di un governo sempre meno stabile. La rottura con Fini era stata superata – non senza difficoltà – ma nella maggioranza la Lega rumoreggiava e già si temeva per la testa di Tremonti, sulle cui spalle gravava l’infausto compito di far quadrare i conti “mettendo le mani nelle tasche degli italiani”. La popolarità del Cavaliere era ai minimi storici e così la sua credibilità internazionale. Se per l’«Economist» era «The man who screwed an entire country», l’insofferenza di Obama durante il suo sfogo sulle toghe rosse al G8 e gli sguardi d’intesa tra Sarkosy e la Merkel la dicevano lunga sulla considerazione che i leader mondiali avevano dello statista di Arcore. I guai con la giustizia sembravano moltiplicarsi e il Ruby-gate aveva portato a quattro i processi in cui il presidente del Consiglio era imputato. Nel giro di pochi mesi, poi, la situazione era precipitata e un passo indietro di Berlusconi – forse con la promessa della grazia in caso di condanna? – era sembrata l’unica soluzione praticabile. Andare a votare, però, non si può, ci disse Napolitano: i mercati non lo perdonerebbero. E poi, volete votare ancora col Porcellum? Tranquilli, il Professore allontanerà l’ombra nera dello spread, dell’instabilità e del baratro finanziario.

Durante i mesi che avevano preceduto le dimissioni di Berlusconi, erano stati in molti, da via Solferino a Repubblica, a ventilare l’ipotesi di Monti a Palazzo Chigi, ben prima che Napolitano lo facesse Senatore a vita. Ieri, però, proprio il Corriere ha anticipato le “rivelazioni sconcertanti” dell’ultimo libro di Friedman “Ammazziamo il Gattopardo”, rivelando la fitta trama di incontri, consultazioni preventive e più o meno espliciti riferimenti al “tenersi pronti” per il dopo-Berlusconi. Tutti, tranne il governo, ça va sans dire, hanno gridato al golpe, parola talmente abusata da essere stata svuotata di ogni significato. Anche nel novembre del 2011 furono in tanti a denunciare il “golpe” che aveva spodestato Berlusconi, salvo poi assicurare la fiducia al governo dei tecnici che «fa quello che diciamo noi» (parola di Daniela Santanchè). Quello che sorprende, nei tanti che oggi denunciano l’intollerabile complotto, è lo sdegno con cui si accorgono solo adesso che il Presidente della Repubblica che negli anni ha firmato l’infirmabile, nascosto le intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia, blindato governi di larghe intese che il Paese non ha votato né voluto in nome di una stabilità che diventa sempre più staticità, abbia esondato dalle proprie prerogative costituzionali, giustificando, in nome di fini ritenuti prioritari per il Paese, mezzi quantomeno discutibili. Napolitano appare sotto attacco da tutti i fronti, difeso solo dal governo Letta che, però, deve la sua credibilità proprio al Capo dello Stato. Paradossalmente, il presunto golpe, lungi da sconfiggere Berlusconi lo ha salvato, permettendogli ora di riciclarsi come padre costituente con Renzi e di sperare in una vittoria alle prossime elezioni (che potrebbe arrivare proprio grazie alla legge elettorale scritta a quattro mani con il leader del Pd). Se fossimo andati a votare nel 2011, l’uscita di Berlusconi dalla porta secondaria sarebbe stata, forse, una realtà non solo metaforica e i risultati delle urne avrebbero potuto decretare la sua sconfitta definitiva.

Ora Forza Italia fa la voce grossa, dimenticando, forse, che proprio Berlusconi è stato tra i massimi sostenitori della rielezione di Napolitano al Quirinale e che per due anni i governi “golpisti” del Presidente sono stati sostenuti da una maggioranza formata anche dal partito del Cavaliere. Chi, invece, di connivenza con i governi di larghe intese non può essere accusato, è il M5S, indefesso nemico di Re Giorgio e promotore dell’impeachment, archiviato questa mattina. Ieri Grillo ha denunciato più duramente dei forzisti il gombloddo ai danni del governo di Berlusconi per rilanciare proprio la richiesta di messa in stato d’accusa del Presidente. «Berlusconi era allora un presidente del Consiglio regolarmente eletto, non era ancora stato condannato e fatto decadere. Fu sostituito con un tecnocrate scelto da Napolitano senza che il Parlamento sfiduciasse il governo in carica. (…) Sappiamo anche che un Presidente della Repubblica ha svolto funzioni che non gli sono attribuite dal suo incarico senza che gli italiani ne fossero informati. (…) i cittadini italiani sono espropriati da qualunque decisione e che il loro voto non conta nulla per i registi dei cinepanettoni della democrazia. Impeachment, e così sia!»
Peccato che i toni di questa sentita filippica contro l’antidemocratico Napolitano non siano esattamente gli stessi con cui il 30 luglio 2011, proprio all’apice di quell’estate caldissima in cui i mercati fibrillavano e la poltrona di Berlusconi iniziava a scottare, si rivolgeva al Presidente della Repubblica. «In questa situazione lei non può restare inerte. Lei ha il diritto-dovere di nominare un nuovo presidente del Consiglio al posto di quello attuale. Una figura di profilo istituzionale, non legata ai partiti, con l’unico mandato di evitare la catastrofe economica e di incidere sulla carne viva degli sprechi. (…) Credo che lei concordi con me che con questo governo l’Italia è avviata al fallimento economico e sociale e non può aspettare le elezioni del 2013 per sperare in un cambiamento. In particolare con questa legge elettorale incostituzionale che impedisce al cittadino la scelta del candidato e la delega invece ai partiti. Queste cose le conosce meglio di me. Lei ha una grande responsabilità a cui non può più sottrarsi, ma anche un grande potere. L’articolo 88 della Costituzione le consente di sciogliere le Camere. Lo usi se necessario per imporre le sue scelte prima che sia troppo tardi».

 

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