Lo Spinario, fra fortuna e mito ai Musei Capitolini
Una chioma dai capelli ondulati, un sedile appena abbozzato che ospita un corpo esile, chino su se stesso, intento a togliersi una spina dalla pianta del piede. Potrebbe essere un giovane come tanti per l’arte romana, ma nel caso della statua bronzea donata nel 1471 da Sisto IV per comporre il nucleo primigenio dei Musei Capitolini, è anche qualcosa in più.
Un elegante lavoro in bronzo sopravvissuto agli assalti del tempo, del Medioevo e della sua penuria di materiali metallici, lo Spinario è un esempio sorprendente della forza comunicativa dell’arte, della sua capacità di travalicare i limiti del tempo e dello spazio per intessere un dialogo ancora vivace con il pubblico. Non a caso, la mostra ospitata dai Musei Capitolini, dal titolo Spinario, storia e fortuna, sfrutta consapevolmente il fascino di un’opera senza tempo, che risiede anche in quella sostanziale indifferenza che il giovane, garbatamente intento nella sua operazione, riserva allo sguardo curioso dello spettatore. Aperta al pubblico da oggi, 5 febbraio, fino al 25 maggio, l’esposizione, curata da Claudio Parisi Presicce, si configura come una buona occasione per riflettere sull’evoluzione diacronica del tema dello Spinario e, più in generale, sull’enorme debito che l’arte di ogni tempo ha contratto con la cultura classica.
Fu proprio lo Spinario capitolino, esposto nelle splendide sale del Palazzo dei Conservatori, a pochi passi dalla sua usuale collocazione, a dare origine al dibattito sul significato del soggetto e sull’identità del suo protagonista: un semplice pastorello per alcuni, per altri un idolo o, più precisamente il dio Priapo, per altri ancora, secondo una tesi tanto suggestiva quanto priva di elementi probanti, il giovane Iulo/Ascanio. Quest’ultimo, figlio di Enea e giovane eroe dell’Eneide, avrebbe avuto il merito leggendario di dare inizio alla gens Iulia, la dinastia di Cesare e Augusto, sotto la quale la stessa statua fu presumibilmente realizzata. Il condizionale è d’obbligo quando si considera che lo Spinario rappresenta la sintesi dell’assembramento di due parti, corpo e capo, ascrivibili a età diverse: il primo di epoca ellenistica (III-I a. C.), il secondo di stile severo (IV a. C.). Ciononostante, l’opera nella sua interezza, che poco ha a che fare con i primordi della cultura romana, rispecchia esaustivamente i temi caldi dell’arte ellenistica, come dimostra il richiamo a un passo del IV idillio di Teocrito, poeta bucolico per antonomasia, in cui il pastore Batto afferma: “Guarda un po’, Corìdone, per Zeus, sotto il tallone una spina mi prese proprio adesso“. L’ambientazione naturalistica doveva riflettersi anche nella collocazione reale della statua, adatta a un giardino o a un parco, vicino a fontane e alberi, a ornamento di quel tempo libero che i romani trascorrevano lontano dai traffici del foro di cui parla spesso Cicerone, filosoficamente assorti in un rigenerante otium.
Lo Spinario come simbolo del rapporto con la natura ma anche delle sue insidie, offrì facilmente all’epoca medievale l’occasione per un’interpretazione moraleggiante, che si ispirava anche ad antichi riferimenti biblici: in quest’ottica la spina diviene il nemico nascosto sul cammino dell’anima inquieta e incauta. Ma l’ammonimento medievale è solo un esempio della grande fortuna, vero fulcro della mostra, di cui godette questo soggetto nelle rappresentazioni artistiche. Lo dimostrano la statua marmorea del British Museum come le copie della Galleria Estense a Modena e della Galleria degli Uffizi a Firenze, nonché le numerose repliche della testa dello Spinario. La diffusione del soggetto è provata dal suo “spuntare” su ogni tipo di supporto e d’epoca: dalle preziose gemme augustee, come in un dettaglio del letto di Amiternum, per finire nell‘incipit decorato di un manoscritto dell’XI secolo con il Libro dei Sinonimi di Isidoro di Siviglia o nella manieristica terracotta di XV secolo, probabilmente la ripresa di una figura della formella del Brunelleschi per la porta del Battistero di Firenze.