La Carta di Lampedusa, un manifesto umano
Incontri, dibattiti, scambi, proposte: il percorso partecipato, che è culminato infine nell’affollata assemblea tenutasi sull’isola dal 31 gennaio al 2 febbraio, ha dimostrato che la costruzione di un diritto dal basso è un esperimento complesso, non immediato, ma possibile.
La Carta di Lampedusa non nasce infatti direttamente come astratta proposta di legge, ma come manifesto umano di lotta. Una lotta intelligente e capillare per l’affermazione di diritti fondamentali. Una battaglia che vuole estendere il proprio contagio sul territorio nazionale ed europeo; uno sforzo collettivo e vitale per divulgare, affermare, praticare e difendere i principi sostenuti. Ecco l’impegno di coloro che, dopo mesi di lavoro collettivo e scrittura condivisa via web, si sono incontrati sull’isola, per dare forma definitiva a questo documento: realtà del Terzo Settore, attivisti per i diritti umani, centri sociali ed associazioni antirazziste, ognuno con il proprio bagaglio culturale e geo-politico. Oltre alla maggioranza di italiani, hanno infatti risposto all’appello di Melting Pot e partecipato all’incontro nella sala grande dell’aeroporto anche da Turchia, Francia, Svizzera, Germania, Olanda, Inghilterra, Israele, Tunisia. <<La Carta di Lampedusa è un patto>>: questo significa anzitutto prendere coscienza delle diversità, analizzare le criticità e trovare punti di contatto. Per questo, non si è parlato solo dei diritti dei migranti e delle loro testimonianze, ma anche di quelle di chi vive in aree di confine come questa subendone le conseguenze. Al dibattito hanno quindi preso parte anche il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, l’associazione dei piccoli imprenditori dell’isola, alcune mamme lampedusane e gli studenti isolani del Liceo Majorana, unica scuola superiore esistente sulla maggiore delle Pelagie. Tutti d’accordo che, se <<le politiche di governo e di controllo delle migrazioni hanno imposto a quest’isola il ruolo di frontiera e confine, di spazio di attraversamento obbligato>>, ora è necessario <<restituire il destino dell’isola a sé stessa e a chi la abita>>. C’è tanto da abbattere e riscostruire, ma esiste anche un capitale umano da cui ripartire. Non a caso, la Carta sviscera e rilancia nel dettaglio alcuni dei principi fondamentali già affermati dagli articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’ Uomo: libertà personale, libertà di scelta e movimento, diritto all’abitare ed alla resistenza.
In questa ottica, urgenza primaria è l’ <<immediata abrogazione dell’istituto della detenzione amministrativa e la chiusura di tutti i centri, comunque denominati o configurati, e delle strutture di accoglienza contenitiva>>, nonché <<la conversione delle risorse fino ad ora destinate a questi luoghi a scopi sociali rivolti a tutti e a tutte>>. Ripensare poi un sistema di accoglienza <<diffusa, decentrata e fondata sulla valorizzazione dei percorsi personali, promuovendo esperienze di accoglienza auto-gestionale e auto-organizzata, anche al fine di evitare il formarsi di monopoli speculativi>>. Ridurre infine l’impatto sociale del fenomeno e favorire l’integrazione. Non è civilmente ammissibile sottoporre esseri umani, che di fatto non hanno compiuto alcun reato penale, ad un sistema di detenzione degradante come quello attuale: creare una rete di aiuti diversificata e diffusa su tutto il territorio nazionale ed internazionale renderebbe inoltre più agevole l’amministrazione ed il controllo delle singole realtà, con una precisa divisione delle responsabilità. Strutture umanamente e architettonicamente più vivibili dovrebbero essere integrate nel tessuto urbano e non relegate ad aree di confine strettamente pattugliate e militarizzate, non nascoste all’opinione pubblica ma ben visibili. I problemi, per essere risolti, devono essere posti sotto l’attenzione di tutti, e l’esperienza della Carta di Lampedusa, che muove in questi giorni i suoi primi passi, dimostra che il dialogo è l’unico “atto di forza” legittimo. E’ evidente come <<la spettacolarizzazione del momento dell’arrivo dei migranti, sull’isola di Lampedusa come in molte altre frontiere d’Europa, con l’utilizzo di un linguaggio allarmistico e securitario – che travisa la realtà dei fenomeni e cancella le storie delle persone – contribuisca ad acuire fenomeni di razzismo e di discriminazione>>. Informazione e Istituzioni sono quindi sensibilizzati ad includere nel loro dibattito <<un immaginario che pone l’essere umano al centro, con la sua libertà di muoversi e abitare nel mondo>>. Il primo obiettivo della Carta, il cui testo è interamente disponibile on-line, è quella di raggiungere un milione di adesioni a livello europeo. I prossimi appuntamenti sono a Roma, il 15 febbraio, per manifestare per la chiusura del CIE di Ponte Galeria; e a Mineo, il 16 febbraio, per chiedere la chiusura del CARA. <<No man is an island>> scrisse qualcuno: neanche Lampedusa deve esserlo, se non in senso strettamente geografico. E i ponti ideali che da essa e verso essa si stanno costruendo, dimostrano che se è non è possibile abbattere i confini naturali, è doveroso ridisegnare quelli mentali.