L’Italia, l’India e i due marò

Oggi la Corte Suprema dell’India ha chiesto al governo risposte in tempi brevi, due settimane al massimo, per uscire dall’impasse sulla vicenda di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, accusati di aver ucciso due pescatori durante un’azione antipirateria nel febbraio del 2010. I due marò si avviano verso il processo ma la retorica che ha accompagnato la loro vicenda non accenna a scomparire.

Nell’arco di pochi giorni, la vicenda dei marò si era già trasformata in una battaglia tra innocentisti e colpevolisti. Le sentenze erano già scritte: brutali assassini a sangue freddo per alcuni, da assolvere su tutta la linea per altri (al punto da pensare all’immancabile complotto). Va detto, per onor di cronaca, che l’innocentismo si è imposto non solo (com’era prevedibile) nelle file della destra più nazionalista ma anche in lara parte dell’opinione pubblica e sui grandi media, che avevano emesso il verdetto ancor prima di vedere uno straccio di prova. Le perizie indiane, le testimonianze e le rassicurazioni del governo di New Delhi non hanno mai nemmeno meritato uno sguardo: la Verità, insindacabile, era quella dei due fucilieri del battaglione San Marco. Così, mentre la diplomazia italiana sbagliava un colpo dietro l’altro, i due militari tarantini diventavano, di articolo in articolo e di manifestazione in manifestazione, degli eroi prigionieri nelle grinfie di una nazione barbara e incivile. Anche quando le sentenze sono arrivate, però, sono spesso state piegate ai desiderata di chi la vicenda dei Marò voleva solo sfruttarla. Un anno fa, quando i giudici hanno stabilito che il Kerala non aveva giurisdizione sul caso poiché si era svolto in acque contigue e non territoriali, in pochi hanno resistito alla tentazione di bypassare il fastidioso termine “contigue“, asserendo che la sparatoria era avvenuta in acque internazionali e che, quindi, spettava all’Italia giudicare i soldati. Il problema dell’attribuzione, però, restava aperto. Se il governo del Kerala – che in piena campagna elettorale aveva provato a strumentalizzare l’arresto dei militari italiani – non poteva rivendicare il diritto di giudicarli, lo stesso non si poteva dire dello Stato Federale dell’India che, secondo i trattati navali, poteva legittimamente avanzare la richiesta.

Tra poche settimane, quindi, sapremo se a giudicare i marò sarà un tribunale italiano o uno indiano: più la decisione si avvicina, però, più tornano a farsi insistenti le voci sulla possibilità che i militari vengano condannati alla pena di morte. Le rassicurazioni del ministro degli Esteri indiano Khurshid e quelle dell’inviato italiano De Mistura sembrano non essere sufficienti e la minaccia della pena capitale infiamma sempre più un’opinione pubblica che vede nell’India nient’altro che una nazione sottosviluppata. Secondo China Files, però, l’impasse burocratica sarebbe dovuta proprio alla necessità di impedire che l’applicazione della legislazione indiana possa portare alla pena di morte: «Il problema risiede nel vincolo che l’agenzia [la Nia, National Investigated Agency, incaricata delle indagini sui marò, NdA] avrebbe a livello giuridico, obbligata a rifarsi al Sua Act, la legge che permetterebbe – secondo il sistema legale indiano – di reclamare la giurisdizione del caso ma che, all’articolo tre, obbliga l’accusa a richiedere la pena di morte nel caso di omicidio in mare». Va inoltre ricordato che, sebbene l’ordinamento indiano preveda l’esecuzione capitale, il criterio applicato è quello del «rarest of the rare», dei casi eccezionalmente gravi. Negli ultimi venti anni sono stati quattro i prigionieri giustiziati: quattro di troppo, d’accordo, ma l’Italia può credibilmente definire barbara e indegna la legislazione indiana quando nei “civilissimi” USA ci sono state trentanove esecuzioni solo 2013? Ora l’Italia, che a rispettare patti è maestra (tutti ci ricordiamo il balletto dello scorso anno «rimandiamo indietro i marò. Anzi no. Anzi sì»), fa la voce grossa e pretende il rispetto degli accordi: Latorre e Girone, infatti, avevano fatto ritorno in India solo dopo aver ricevuto dal governo indiano l’assicurazione che la pena di morte non fosse neanche una remota possibilità.

In due anni, l’unico vero risultato ottenuto è la scomparsa dell’evento che ha dato origine alla controversia internazionale e delle vere vittime: Ajesh Pinky e Sebastian Valentine. In pochi giorni i loro nomi, i loro volti e le loro storie sono stati condannati all’oblio da una retorica nazionalista come se appartenessero un’umanità che non merita il rispetto che si tributa agli “eroi”. Addirittura il loro omicidio (perché, anche se colposo, di omicidio si è trattato) sulle colonne di «Repubblica.it» diventa genericamente «l’incidente del 15 febbraio 2012 in cui al largo del Kerala morirono due pescatori». E pace all’anima loro. Il governo italiano ha «disinteressatamente» pagato le famiglie (o il loro silenzio?) e sulla scena sono rimasti solo loro: i “nostri” poveri marò dietro le sbarre. Peccato che, nelle famigerate prigioni indiane, i militari non abbiano passato un giorno e che da marzo siano liberi di muoversi su tutto il territorio dello Stato. Ma questo, forse, fa più comodo nasconderlo. Allo stesso modo non si vuole ricordare che “i nostri ragazzi” non erano sull’Enrica Lexie per «difendere la Patria» ma al servizio di un armatore privato. L’Italia, troppo preoccupata di dimostrare la propria – supposta – superiorità culturale nei confronti di un Paese emergente, ha continuato a dipingere i marò come poveri perseguitati da leggi ingiuste (ah, quanto ci piace questo ritornello) mentre scopriva un insolito interesse per il drammatico flagello – purtroppo niente affatto recente – degli stupri e della condizione femminile in India.

 

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