Ti ho sposato per allegria: amore e dubbi dell’ultimo minuto!
La commedia d’esordio di Natalia Ginzburg festeggia 50 anni con il nuovo allestimento di Piero Maccarinelli, ospitato a Roma fino al 4 febbraio al Teatro Sala Umberto. Un matrimonio celebrato provocatoriamente “per allegria”, dopo un solo mese d’amore, è al centro di un testo che gioca a fingersi leggero, ma che solleva in trasparenza riflessioni sulle tematiche sociali fondanti del ‘900, tra cui il divorzo, l’aborto e l’incomunicabilità nella coppia.
Quando Giuliana scappa a Roma dal suo paesino natale è una diciassettenne svitata, senza denaro e senza alcuna certezza, se non quella di non voler diventare nella vita “una salamandra inutile“, una noiosa bigotta come le sue compaesane. Naufragando in se stessa e nelle avventure infinite di chi non sa che fare della propria esistenza, conquista e perde ciclicamente disparati lavori, si lascia stregare da improbabili amori non ricambiati, per poi trovare finalmente pace tra le braccia di Pietro. Le basterà un mese d’amore e “una lucidissima riflessione di un minuto” per decidere di sposare un uomo che è il suo perfetto opposto, un giudizioso avvocato di rispettabile famiglia borghese. Pietro, da parte sua, si lascerà colorare la vita monotona da una donna che ama perché “graziosa come una farfalla”. A interpretare le peripezie della coppia peggio assortita del teatro sono l’attrice fiorentina Chiara Francini ed Emanuele Salce, figlio del grande regista Luciano Salce che, a due anni dalla pubblicazione del testo della Ginzburg, ne fece un film memorabile con Monica Vitti e Giorgio Albertazzi. Deridendo gli stereotipi del matrimonio borghese, contratto per soldi, per interesse, o semplicemente per la fretta di non rimanere soli, la Ginzburg accosta curiosamente i suoi personaggi per una bizzarra complementarità che elettrizza entrambi. Nell’Italia arretrata degli anni 60 Giuliana pecca di originalità, e il suo punto di vista stravagante diventa la voce fuori dal coro attraverso cui offrire una dissacrante panoramica dell’universo femminile dell’epoca, in preda a una rivoluzione, di fronte al germogliare delle nuove possibilità di essere donna. C’è la suocera puritana (Anita Bartolucci) ben incasellata nel ruolo tradizionale di moglie e madre che sentenzia “io non mi faccio psicanalizzare, io ho la fede”, e c’è Topazia, la rivoluzionaria emancipata convinta di poter crescere un figlio senza un compagno.
Se Monica Vitti nel film di Salce valica i limiti del riadattamento cinematografico, portando sullo schermo una mimica teatralmente enfatizzata (“strafà”, scrisse il critico cinematografico Morandini), la regia di Maccarinelli non sembra approfittare del maestoso palco del Sala Umberto, e propone movimenti scenici modesti, fin troppo limitati per poter accompagnare adeguatamente l’esilarante vivacità della rappresentazione. Chiara Francini, nell’interpretare un ruolo bizzarro che non le è nuovo, regge da sola metà spettacolo, intepretando un monologo lungo un intero atto, fino a quando la vulcanica entrata in scena di Anita Bartolucci invade il palco, ubriacando il pubblico di risate.