La recensione: L’Obelisco di Luca De Bei
Un matrimonio appeso al filo dell’abitudine, due marinai che non hanno paura della vita e un fantomatico reperto archeologico: pochi elementi per lo spettacolo L’Obelisco, in scena in questi giorni e fino al 2 febbraio al Teatro dei Conciatori di Roma. Tre lunghe file di panche ospitano, un po’ scomodamente, gli spettatori, forse troppi rispetto all’effettiva capienza del teatro.
Il regista Luca De Bei e lo scenografo Dario Dato hanno infatti voluto sconvolgere la consueta organizzazione dello spazio scenico, sfruttandone la larghezza a discapito della profondità. Una disposizione questa che non sembra priva di una sua logica: da una parte la vicinanza agli attori è tanto serrata da coinvolgere anche emotivamente lo spettatore nella vicenda, dall’altro la scenografia invoca un’altra, del tutto antitetica, sensazione, quella di essere esclusi, tagliati fuori, di osservare come visitatori in un museo un quadretto di Constable, o di qualsiasi altro paesaggista inglese, fuori dal tempo e dallo spazio.
Un grande telo bianco sullo sfondo accoglie tutte le sfumature cromatiche di un sole che sorge all’inizio dello spettacolo e tramonta al suo concludersi. La scena appare divisa in due metà, che in effetti non dialogano tra di loro: sulla destra due tavolini per i quattro personaggi, sulla sinistra un intrico di sentieri e rocce. Che si tratti di una spiaggia è presto detto, lo suggerisce il sottofondo di onde e gabbiani che non abbandona mai lo spettacolo. Lo stile vintage e raffinato dei costumi è rinforzato dal suono del grammofono e dall’interpretazione sobria e esperta di Gianna Paola Scaffidi e Antonio Serrano.
La storia, piuttosto semplice, segue i passi di un racconto breve di Edward Morgan Forster, scrittore inglese ingiustamente trascurato in Italia, autore di romanzi e opere teatrali: nella fattispecie l’Obelisco è tratto da una raccolta, pubblicata nel 1972, a due anni dalla morte dello scrittore, che riunisce i racconti che Forster aveva lasciato abbandonati e non ultimati nel suo studio al King’s College di Cambridge. Il testo, che fu scritto nel 1939, parla di una donna, Hilda, completamente disamorata del marito Ernest: l’esplorazione durante una vacanza di un vecchio obelisco, insieme con l’incontro di due sfrontati marinai, sconvolge per un attimo la quotidianità del suo matrimonio e la rende più pacifica nell’accettarlo.
I cenni sull’imminente conflitto che sta per abbattersi sull’Europa sono farina del sacco del regista, anche se forse un suggerimento viene dallo stesso Forster, quando scrive: “Il tempo era afoso e si udivano in lontananza i rigurgiti d’un aeroplano”. Proprio il presagio della guerra arricchisce il tono malinconico della rappresentazione, che gira intorno alla noia e all’abitudine dei due personaggi principali in opposizione alla grinta dei marinai, tanto forte da contagiare infine anche Ernest e Hilda. Ma la digressione più importante dal racconto non sta tanto nell’eco della guerra, quanto nel fatto che De Bei ha saputo offrire anche a un secondo personaggio, il marito, uno spazio da narratore nella storia: il punto di vista, che nel racconto è affidato esclusivamente alla prospettiva di Hilda, si divide quindi, come la scenografia del teatro, tra moglie e marito. Lo spettacolo ne guadagna in equilibrio perché i due personaggi cominciano insieme, si dividono per poi riconciliarsi più legati di prima nel finale. La vicenda professionale di Ernest e la sua confessione finale poi, giustificano il perdono della moglie, che sorvola sul presunto affaire, proprio come avrebbe fatto un elegante gentiluomo inglese.