Marò: una storia senza fine
Sono ormai passati quasi due anni da quando due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, avrebbero aperto il fuoco dalla petroliera Enrica Lexie, protetta dalla Marina Militare italiana, uccidendo i pescatori indiani Ajesh Binki e Valentine Jelastine, ma ancora non è stata presa una decisione definitiva riguardo l’accaduto.
Il 15 febbraio 2012 ha, così, avuto inizio un lungo dibattito, destinato a diventare una questione centrale della politica italiana, ma anche della diplomazia internazionale.
Due “avversari”: da una parte l’Italia, che tenta di difendere con ogni mezzo i propri militari in un periodo già di per sé piuttosto critico del nostro Paese, dall’altra l’India, che afferma di essere stata vittima di un sopruso e chiede a gran voce giustizia. Un’unica grande ombra: il rischio della pena di morte.
In India, infatti, è prevista la SUA Act, una legge contro la pirateria che può spingersi fino alla condanna a morte nel caso in cui vengano riconosciuti atti di terrorismo.
Nel marzo 2013 l’ambasciata di Nuova Delhi aveva dichiarato che la giurisprudenza indiana non prevedeva la pena di morte per il “caso marò” e, che, ad ogni modo, la pena sarebbe stata scontata in Italia. Pertanto, dopo essere tornati momentaneamente in Italia per adempiere al diritto di voto nel corso delle elezioni del 2013, i due militari erano stati rispediti in fretta in India, così da non compromettere ulteriormente i rapporti tra quest’ultima e l’Italia: un primo grande errore. Nessuno avrebbe immaginato che, in realtà, le cose si sarebbero ulteriormente complicate.
Secondo fonti ufficiali indiane, infatti, ancora oggi il ministero dell’Interno sarebbe indeciso sul respingere o meno la richiesta della Nia di perseguire i due marò secondo il SUA Act ed è stata addirittura avanzata l’ipotesi di considerare il comportamento dei due marò come un reato premeditato. L’Italia ha già presentato un ricorso alla Corte Suprema ed è prevista una delegazione parlamentare a Nuova Delhi con la finalità di ottenere una soluzione in tempi brevi. Nel testo presentato alla Corte Suprema si sottolinea che “nel comportamento indiano è configurabile una figura di offesa al massimo tribunale perché per un anno non è stato fatto nulla di quanto da questo raccomandato”.
Del resto, lo stesso Ministro degli Esteri indiano, Salma Khurshid, ha ammesso: «Quando lamentano che sono passati due anni e loro non sono stati neanche incriminati provo imbarazzo ma è causa della complessità del nostro sistema giudiziario che noi non riusciamo a sottoporli a un rapido processo». Il ministro, infatti, sembrerebbe essere l’unico a ricordarsi delle promesse fatte all’Italia e intenzionato a rispettarle.
L’Italia aveva già avanzato proposta di rimborsare le famiglie dei pescatori morti, a patto che si ritirassero dal processo: secondo grande errore, poiché questo atteggiamento è stato interpretato dall’India come un’ammissione di colpa.
Un quesito sorge spontaneo: si tratta davvero del tentativo disperato di due nazioni di proteggere i propri cittadini, o solo di capricci tra stati che tentano di utilizzare l’episodio per conquistare il favore della popolazione?
Una cosa è certa: ancora una volta il diritto internazionale risulta lacunoso. La sua funzione dovrebbe essere quella di facilitare i rapporti tra stati ma, il più delle volte, esso appare facilmente soggetto a varie interpretazioni. Se la delimitazione delle acque internazionali, la definizione del crimine della pirateria, il concetto di immunità funzionale ed il principio dello stato bandiera fossero stati chiari ed uniformi per entrambi i Paesi sin dall’inizio, non ci troveremmo in questa situazione.