Renziellum

«Non abbiamo vinto, anche se siamo arrivati primi». Niente come il commento di Bersani sul risultato uscito dalle urne spiega il paradosso della «porcata» partorita e subito misconosciuta dal leghista Calderoli: la legge elettorale votata dalla maggioranza di centrodestra nel 2005. Era il 26 febbraio, il punto d’arrivo di una campagna elettorale in cui tutti avevano giurato solennemente di cancellare questo orrore legislativo. Sono passati dieci mesi e il Porcellum come lo conoscevamo non esiste più. Promessa elettorale mantenuta? Macché.

 

Ce lo ha dovuto dire la Corte Costituzionale che da 8 anni andiamo a votare con una legge incostituzionale, mentre l’impasse del dopo-elezioni, risolta (poco) brillantemente da Napolitano col governo di larghe intese, permetteva di rimandare e rimandare ancora. Tutti, ma proprio tutti tutti, erano d’accordo che una riforma fosse necessaria, ma quale? Gli ultimi mesi sono sembrati una tragicomica replica del monologo di Benigni, risalente all’ormai lontano 1995: «Noi siamo per la riforma, uninominale, secca, all’inglese, con doppio turno alla francese e il ballottaggio e lo scorporo del proporzionale al Senato e alla Camera, per il presidenzialismo e il cancellierato alla tedesca, il problema Sartori, e vogliamo il presidenzialismo all’americana con la soluzione alla francese e l’uninominale all’inglese e i bucatini all’amatriciana e la bistecca alla fiorentina e noi vogliamo, elettori, il bagno alla turca!». Così, fra dichiarazioni e tentativi di accordi, polemiche e smentite, i mesi sono passati e la riforma forse più necessaria per il Paese ancora latita; la decisione della Consulta, anzi, ci ha consegnato una legge elettorale abortita, non votata dal Parlamento e inapplicabile. Ci ha lasciato, in poche parole, senza legge elettorale e senza alcuna possibilità di andare al voto.

Ora, però, c’è Renzi, il factotum, il taumaturgo del Pd che, forte di un’investitura quasi plebiscitaria alle primarie, preme sull’acceleratore per realizzare uno dei suoi cavalli di battaglia. Del resto il Sindaco d’Italia punta a Palazzo Chigi, ma senza una legge elettorale non può nemmeno pensare ad uno strappo con Letta: una crisi di governo non porterebbe a nuove elezioni (Napolitano ha fatto capire chiaramente che di sciogliere le camere non se ne parla) e Renzi sarebbe additato come l’assassino della stabilità. Dall’altro lato, però, il rischio per il neosegretario è di restare impantanato (se il governo Letta dovesse durare) almeno fino al 2015 e arrivare alle elezioni senza quella carica dirompente da “nuovo che avanza” e senza aver potuto realizzare le promesse in cui ha creduto quasi un milione e mezzo di cittadini che lo ha scelto per guidare il Pd. Avanti tutta, quindi, su una riforma elettorale condivisa anche con FI e M5S perché «le regole del gioco si fanno con tutti». L’obiettivo del segretario è «garantire la governabilità e evitare gli inciuci», tradotto: mai più una situazione come quella delle ultime politiche. Forte del peso del Pd nel governo (peso, ricordiamolo, dovuto all’incostituzionale Porcellum che ha garantito ai Democratici il 54% dei seggi a fronte di un 29,5% di preferenze), Renzi incalza Letta che, se plaude al rinnovamento generazionale e al gioco di squadra, sa che dall’8 dicembre la sua poltrona è meno stabile che mai. Se il Sindaco di Firenze si dice certo che la riforma sarà approvata nei primi mesi del 2014, i governativi, leggi Alfano, chiedono che si aspetti almeno fino ad aprile, così da far galleggiare l’esecutivo fino al 2015. Un’ipotesi che potrebbe non essere troppo lontana dalla realtà: se, infatti, la discussione alla Camera avverrà nei tempi stabiliti (la prima settimana di febbraio) come annunciato da Renzi, l’iter al Senato potrebbe andare al rallentatore così da non fare approvare la riforma prima delle Europee.

Ma qual è, dunque, la riforma proposta da Renzi? Consapevole che non esiste una legge elettorale perfetta e che solo un dibattito aperto può garantire la condivisione anche da parte dell’opposizione, il Segretario non sembra voler indicare la “sua” riforma. In passato ha parlato dell’applicazione della legge dei Sindaci anche a livello nazionale, ma il sindaco è eletto direttamente, mentre è il Presidente della Repubblica che, sulla base dei risultati elettorali, conferisce (in genere al candidato della coalizione vincente) l’incarico di formare un governo: una riforma di questo tipo intaccherebbe l’ordinamento costituzionale e non potrebbe essere approvata che con una modifica alla Costituzione. Alla Camera, poi, è già stata depositata la proposta di Nicoletti, renziano, che prevede un doppio turno se nessuno raggiunge il 40%. La necessità, ovviamente, è quella di garantire rappresentanza e governabilità. Renzi, dal canto suo, sembra propendere decisamente per la seconda: è prevedibile, del resto, che, forte di un consenso popolare molto forte, il Sindaco di Firenze guardi al maggioritario. E la sua determinazione fa paura, al punto che è tornato a farsi sentire pure Casini che, forte del suo 1,5%, vuole far sentire il suo peso nella discussione «antiproporzionale»: se fosse il maggioritario a vincere, come è probabile, le percentuali poco più alte di quelle «da prefisso telefonico», per dirla alla Grillo, potrebbero non trovare spazio nell’arco parlamentare.

Come un regalo di Natale, però, potrebbe arrivare una proposta pronta a mettere tutti d’amore e d’accordo. Preso atto che il ritorno al Mattarellum, di cui sembrano essersi innamorati di nuovo i forzisti, è improponibile, da alcuni contatti riservati tra esponenti renziani del Pd e di Fi starebbe prendendo forma una sorta di ibrido, un Mattarellum corretto con un (eventuale) doppio turno di coalizione. Se le percentuali della vecchia legge sarebbero invariate (75% maggioritario, 25% proporzionale), il premio di maggioranza scatterebbe solo al raggiungimento di 200 seggi: in caso contrario le coalizioni con più voti si giocherebbero tutto ad un ballottaggio. Contento Berlusconi, che vuole il Mattarellum (ma otto anni fa non l’ha tolto proprio lui?), contento il Pd che vuole il doppio turno, disposto a trattare il Ncd (a patto, ripetono, che non si voti la legge prima di aprile), contenti tutti e contento, soprattutto, il bipolarismo. Bipolarismo che, però, non solo non ha una grande tradizione nella storia d’Italia, ma che è stato ulteriormente messo in crisi dai risultati dell’ultima tornata elettorale e dall’ingresso del MoVimento 5 Stelle in Parlamento. MoVimento che, fino ad ora, non sembra interessato alle avances del segretario democratico e che, poco più di una settimana fa, aveva chiuso la questione invocando il ritorno alle urne con il Mattarellum, in innegabile sintonia con il vituperato Psiconano. Se Berlusconi, però, addolcito forse dal Natale, forse da Dudù o forse, più probabilmente, dalla prospettiva delle elezioni anticipate sembra disposto a trattare col nemico di domani, Grillo non ci sta e continua a ignorare le «scoreggine dell’ebetino di Firenze».

 di Costanza Giannelli

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