Un uomo con il coraggio di risplendere
È esistito. È vissuto offrendo a ciascuno di noi la possibilità di comprendere, rivelandone l’intimo significato, quella che sembra essere una delle più belle e profonde parabole incastonate nel Vecchio Testamento, quella del savio e fedele Giobbe.
È esistito. È vissuto offrendo a ciascuno di noi la possibilità di comprendere, rivelandone l’intimo significato, quella che sembra essere una delle più belle e profonde parabole incastonate nel Vecchio Testamento, quella del savio e fedele Giobbe. In comune con l’eroe biblico la pazienza ispirata da quel Dio che condanna entrambi a delle vite ai limiti dell’umano privandoli di tutto e catapultandoli nel buio di una solitudine tremenda, insondabile. Entrambi sopravvissuti e rinati ai tormenti e alle prove che un destino impietoso ha riservato loro; entrambi morti vecchi e sazi di giorni. Il lungo cammino esistenziale di Nelson Rolihlahla Mandela inizia attorno alle amene colline del Transkel, situate nel sud est dell’attuale repubblica Sudafricana, nel lontano 18 luglio dell’anno 1918. Nasce con quel nome bizzarro e così impronunciabile per noi occidentali, Rolihlahla, che letteralmente vuol dire «colui che tira il ramo dell’albero», tra i Thembu, destinato ad ereditare da suo padre il trono che ne avrebbe fatto il capo indiscusso della sua tribù. La sua infanzia è quella comune ad ogni bambino africano; selvaggia, immersa in quella povera ed incontaminata terra che avrebbe calpestato scalzo, libero tra gli armenti, l’arsura e il calore unico del sole africano. Compie i suoi primi studi presso la scuola dei preti missionari, con un nome nuovo, Nelson, donatogli per celebrare le prodezze di Horatio, famigerato ammiraglio della flotta britannica. «Tipico figlio della sua generazione» – come scrive Pietro Veronese su La Repubblica – «porta in sé fin dalla più tenera età, la duplice identità della tradizione e dell’emancipazione offerta dai bianchi. Il vecchio e il nuovo, il radicamento e la trasformazione». Sospinto dunque a risolvere l’intricato conflitto tra due realtà così estreme, una tanto arcaica l’altra tinta dalla inarrestabile modernità occidentale, Mandela indosserà la cravatta con la stessa disinvoltura con cui vestirà le sue sgargianti camicie dalle complicate e affascinanti trame africane. A Johannesburg dove si trasferirà per evitare quel matrimonio combinato dai membri anziani della sua tribù, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza (conseguirà la laurea per corrispondenza, durante la prigionia, nel 1989), manifestando immediatamente il suo innato senso della giustizia, che sarà l’artefice delle sue conquiste e la causa delle sue pene. Il contesto storico entro cui si forma Nelson Mandela è quello frantumato dalla seconda guerra mondiale, quello che segna il tracollo dell’impero britannico e la conseguente ascesa al potere dei bianchi afrikaner, fomentati da un cieco nazionalismo, che sfocerà nelle disumane leggi dell’apartheid privando dei diritti fondamentali il popolo nero. Come militante dell’ African National Congress il giovane Madiba (l’appellativo deriva dal nome del clan) inizierà la sua lotta contro l’intollerabile discriminazione; viene arrestato una prima volta e poi scarcerato. Seguiranno anni tumultuosi in cui l’ANC passerà alla lotta armata e che lasceranno sprofondare nella cupa clandestinità il nome di Nelson Mandela ribattezzato dalla stampa «primula nera»; nel 1963 quest’uomo dalla inusuale tenacia sarà arrestato nuovamente e condannato al carcere a vita. L’anno successivo varcherà le porte ferrate dell’isola-prigione di Robben Island, davanti Città del Capo, dove la sua carne per diciotto anni conoscerà il periodo più duro; ne seguiranno altri sei nel carcere di massima sicurezza di Polismoor, dove si getteranno le basi del dialogo con il regime; l’ultimo anno di carcere lo trascorrerà nella prigione modello di Victor Vester. Totale: 27 anni di detenzione, un terzo della sua longeva esistenza. Il solo pensiero fa tremare i polsi. Mentre là fuori l’Apartheid trionfa Mandela non si lascia piegare dallo scoramento perché la sua cella diventa «un luogo ideale per imparare a conoscersi, per esplorare realisticamente e con regolarità i propri processi mentali ed emotivi» fino a scoprire che «un santo è un peccatore che non smette mai di provare a migliorarsi». Benedire la sua carcerazione significherà impedire la crescita esponenziale del rancore e dell’odio; vorrà dire riconciliarsi interiormente con quella negazione imposta, subita, che avrebbe potuto irreversibilmente cancellare la sua dignità. Da questa esperienza che avrebbe disumanizzato chiunque ne esce ritemprato, con una più ampia conoscenza del ‘nemico’ (porta un estremo rispetto per i suoi secondini) che ha a lungo studiato e ancora più consapevole che solo «i grandi scopi possono risvegliare grandi energie». Il 1990 celebra la scarcerazione di colui che per la stampa era ormai diventato «il prigioniero politico più famoso del mondo». Tre anni dopo viene insignito del premio Nobel per la pace e nel 1994 diventa il primo presidente nero del Sudafrica, carica che assumerà fino al 1999. Sono numerosi i meriti che a questo grande uomo possono essere ascritti; fra questi brilla la sua lucida intuizione nel riconoscere allo sport un potere risanatore, aggregante, in grado come poche altre attività di portar fuori dall’abulia l’essere umano. Negli anni angoscianti dell’isolamento oltre alla scrittura (la sua poderosa autobiografia è la meditata ricomposizione di foglietti carichi di annotazioni) e alla lettura è lo sport che lo tiene in vita e lo aiuta a sconfiggere la disperazione. Insieme ai suoi sventurati compagni di viaggio, chiese il permesso di formare una squadra di calcio per poter giocare i fine-settimana; con l’idea di assistere al totale collasso delle loro forze, i carcerieri diedero l’assenso. I cinque volenterosi giocatori non solo riuscirono a conservare la loro integrità fisica ma anche quella degli altri. Attraverso il gioco di squadra consolidarono la loro fratellanza senza cadere in un patetico vittimismo scoprendo che il calcio li aveva aiutati, come loro stessi hanno dichiarato, a sentirsi parte di qualcosa, rivendicando in questo modo, con vigore, la loro dignità. Mandela ha combattuto per portare il Sudafrica in quel crogiolo di storie, razze e identità che sono i giochi olimpici; è stato una preziosa fonte di ispirazione per la squadra di rugby del suo paese che nella coppa del mondo del 1995 trionfò sugli invincibili All Blacks. Infine ha lasciato ancora che fosse lo sport a favorire la sua ultima apparizione pubblica; in cappotto e colbacco, accanto alla moglie Rachel, di fronte ad un Sudafrica libero che assisteva alla finale dei mondiali di calcio, fiero, compì come ultimo saluto, il suo giro di campo.
La sua esemplare compiutezza non deve essere compianta; il suo sorriso serafico e accogliente, perfetta incarnazione della grandezza della sua anima, non deve destare una scialba nostalgia. La sua dipartita può provocare quell’estraniante percezione di vuoto che sembra ghermire fino quasi a intorpidire il nostro spirito. Non cediamo a questa insipida viltà che sarebbe il più alto tradimento al suo nobile messaggio. Sforziamoci nei limiti delle nostre possibilità di compiere un primo passo dentro quel vuoto, per scoprire, mossi dall’ardore, che la nostra «paura non è di essere inadeguati/ la nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite» perché – come lo stesso Mandela ci ricorda – « è la nostra luce, non la nostra ombra a spaventarci di più».