Jovanotti e la bellezza della sua Gratitude
Gratitude, recita il titolo dell’ultimo libro di Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti; un rendimento di grazie verso le persone, le cose, le situazioni che hanno segnato il suo brillante cammino. Una sorta di abbraccio gigantesco che non afferra, né stringe, ma accoglie con la stessa intensità, dolori e gioie che la vita gli ha riservato.
È un libro «disordinato» come lo stesso autore lo definisce, dove su una stoffa multicolore si incontrano autentiche gemme del pensiero. Siamo lontani dall’autobiografia classica tesa a raggiungere una composizione solida che spesso evoca la formalità dei giardini. È qui assente la tensione nostalgica e la linearità del tempo vissuto si scompone e si interrompe continuamente; emozioni e ricordi trovano la loro sistemazione affidandosi ad una memoria che «si scolpisce e si modifica alla luce di dove uno si trova nel momento in cui decide di ricordare». Gratitude è un elogio del movimento; un’ esaltazione della vita spogliata di ogni sua prevedibile trama, una giungla di parole, una miniera di immagini… Il sipario si apre sul «residence di fronte al porto turistico», in quella rinomata e festosa località balneare, Riccione, dove si sarebbe potuto fissare un inizio. In realtà è solo il luogo dove quest’opera prende corpo; perché di inizi in questa affascinante esplorazione a ritroso, Lorenzo ne intravede una lista interminabile: la sua Cortona, Roma, Palinuro, le discoteche della Sardegna, Milano con Radio Deejay … Persino il rifiuto della conduzione di Bim Bum Bam potrebbe consistere in un ipotetico incipit, quando più semplicemente invece disvela una coraggiosa attitudine a scartare il certo per gettarsi nell’imprevedibile nuovo. Forse di sicuro c’è quella energica e sana voglia di «mischiare e mescolare le cose all’infinito» fino «a creare quelle sequenze di senso» che sono le sue canzoni, presenti in germe in quel suo primo mestiere, il disc jockey, che rimarrà sempre per lui un modo di essere, un modo di vivere. Il primo mestiere appunto, perché come gli inizi anche i mestieri saranno più di uno: musicista, cantante, scrittore, viaggiatore. Nessuno di questi però è preceduto da un’adeguata preparazione, da un canonico percorso di studi; e sfolgora infatti tra le fitte maglie del testo un’umile e bellissima consapevolezza: «Quasi tutte le cose che faccio nascono dal non saperle fare». La scuola di Lorenzo è quella realtà che molti di noi rifiutano e il suo talento sta nel mescolarsi nel variegato e imprendibile flusso dell’esistenza senza esserne risucchiato; nel vivere la vita come fosse un ammaliante paradosso, dove «i forzuti si accasciano», dove «governa la tecnica» e «l’amicizia si genera». Precursore, in un’Italia ancora ignara delle sue ritmiche, si innamora del rap per la sua «stranezza facile e non inquietante» evitando come un rugbista in corsa «la tiritera autodistruttiva del rock»; si sente subito corrisposto da quel linguaggio nato oltreoceano, con le sue rime baciate, le sue assonanze, le sue allitterazioni e «senza troppa tossicità intorno». Solo «pura forma, puro fatto estetico, ritmo, caos, gente che balla, stile». Insomma il mondo che dai primi agli ultimi album con tutte le sue mirabolanti evoluzioni ci ha offerto fino ad oggi.
Nel corso dell’opera non mancano delle piccole considerazioni, scevre di ogni forma di risentimento, rivolte ai suoi detrattori spesso riconducibili a quelle integerrime categorie dei «duri e puri», con le loro corazze di pregiudizi, con la loro inscalfibile spocchia di chi, senza sporcarsi le mani, crede di appartenere al regno degli incontaminati. Mentre i puri come a ragione diceva Simone Weil sono coloro capaci di contemplare la sozzura. Non possiamo confondere il suo viscerale attaccamento alla vita come una qualsiasi forma di banale ottimismo. Ha viaggiato intorno al mondo, nutrendosi delle sue bellezze, dei suoi colori; ha pedalato con la sua amata bicicletta fino alle terre desolate della Patagonia per scoprire fino in fondo cosa lo abita; non ha chiuso gli occhi di fronte alle povertà che dipinge a tinte fosche il continente africano. Come ogni uomo che insegue la propria maturità ha imparato ad accettare l’esistenza della morte; «il concetto della perdita» diviene per lui « come un fatto necessario per accedere a un nuovo livello, a un upgrade di conoscenza». Continuare a pensare positivo dopo aver perso per un banale incidente domestico la propria madre, dopo aver perso quel fratello che più di ogni altro lo aveva motivato non può essere più confuso con un ingenuo idealismo. Pensare positivo comporta un impegno costante, una fatica (la stessa che ha conosciuto nelle salite con la sua bici), volti a proteggere quella minuscola e potente scintilla di entusiasmo depositata in ognuno di noi e che un cruda realtà spesso minaccia di oscurare. Perché come ci dice lo stesso Lorenzo «il mio lavoro non consiste nel fare canzoni ma nell’arrivare alle canzoni attraverso il continuo rinnovo di interesse verso le cose della vita». Si percepisce in ogni pagina la natura globale della sua anima capace di danzare sui tanti ritmi che le stazioni della vita possono trasmettere. Per chi lo ascolta, lo legge e lo osserva attentamente una cosa non può sfuggire e cioè la sua enorme capacità comunicativa che combacia con la pratica costante dell’arte del confronto. Qualsiasi esperienza per lui diventa l’occasione per ridimensionare il suo spessore artistico; saper sfondare i muri entro cui l’ego si adagia beandosi dei suoi trionfi è cosa che appartiene solo ai veri esploratori, pellegrini autentici in cerca del vero.
In questi 25 anni di carriera si è cercato in tutti i modi di etichettarlo. Inutilmente. Fotografare Jovanotti è come fotografare un bambino. Si può cogliere l’immagine del suo involucro, ma è impossibile deciderne le intenzioni perché a lui stesso ancora sconosciute.
L’ imprevedibilità è la cifra stilistica della suo opera. Tra gli schizzi e gli abbozzi che costellano Gratitude, vere miniature che descrivono l’inafferrabilità del suo spirito, forse una sembra meglio esprimere la quintessenza di questo artista così poliedrico. Un giorno nel grande anfiteatro antico di Epidauro in seguito ad «una esperienza ravvicinata con la divinità» gli parve di sentirsi parte di «quella schiera di esseri umani che stanno lì dove si scatena la danza, dove la parola è prima di tutto suono, dove la gente si raduna per guardare se stessa in uno specchio che riflette la parte viva, quella che rigenera e cura e lascia indietro la zavorra, i pensieri che ostacolano il fluire della vita». Siamo tanto analitici, quanto alto è il nostro desiderio di controllare il corso della nostra vita; perché l’analisi molto spesso non è altro che paura travestita da presunta conoscenza. Parliamo e commentiamo mentre lontano la vita scorre con le sue incredibili sorprese sempre al di là delle nostre insulse e sterili previsioni. Grazie Lorenzo per la bellezza coinvolgente del tuo spettacolo che fedele al tuo desiderio, in questo mondo sommerso dalle opinioni, «non è un’opinione, ma un racconto senza giudizio, una frontiera epica nella modernità».