Bisogna morire per diventare italiani

L’indignazione per la nostra incapacità di accogliere l’altro, il solidale dolore per le umanità disperate che attraccano a Lampedusa e per i corpi senza nome sprofondati nelle acque di un mare cimitero seguono l’andamento oscillante del moto ondoso del mare che accompagna i barconi di migranti, sospinti dalla speranza e risucchiati indietro senza pietà.

Questo stesso moto altalenante caratterizza l’attenzione politica e mediatica sulla questione dell’accoglienza, raggiungendo l’apice quando succede che il naufragio di un solo barcone (quello del 3 ottobre a Lampedusa) faccia contare quasi 300 vittime, e sprofondando nel silenzio quando si muore alla spicciolata. La tragedia consumatasi di fronte all’Isola dei Conigli ha la stessa portata di disperazione di quelle a cui i lampedusani assistono da anni e a cui provano a far fronte con pochi mezzi e tanta solitudine. Lo Stato che si gira dall’altra parte e farfuglia responsabilità europee è lo stesso che ha partorito un progetto di inciviltà e terrore dello straniero come la legge Bossi-Fini, che celebra il rifiuto e il respingimento senza appello. La dicotomia tra risentimento sollevato dalla demagogia e inasprito dalla crisi economica e l’umano senso di fratellanza tra gli uomini viene incoronata dall’ipocrisia: il 6 ottobre, mentre il premier Letta annunciava che l’Italia concederà la cittadinanza ai morti nelle acque di Lampedusa, la procura di Agrigento apriva d’ufficio un’inchiesta sui sopravvissuti per reato di clandestinità. Bisogna dunque morire per diventare italiani.

Oggi si recano a Lampedusa Letta, Alfano e il presidente della Commissione europea Barroso, ma il sindaco dell’isola Giusy Nicolini ha detto senza mezzi termini: «Se devono venire solo per fare le condoglianze possono mandare una mail, qui servono impegni concreti». Di impegni concreti si parla da innumerevoli G8, restando tuttavia sempre nell’ambito di vaghe promesse coniugate al tempo futuro. Barroso ha già dichiarato che le leggi sull’immigrazione, come quella italiana che prevede il reato di clandestinità, sono di competenza nazionale e la commissione Ue non può intervenire, mentre sulla questione degli sbarchi l’Europa può e deve dare una mano. Certo non può guarirci dall’indifferenza né insegnarci il rispetto dello straniero a colpi di direttive.

Incalzato dalla cronaca il governo si è messo a lavorare a una modifica del diritto d’asilo, dopo che Napolitano l’ha indicato come principale nodo da risolvere, ma la fame o il semplice e sacrosanto diritto a muoversi liberamente su questa terra non possono essere motivazioni di serie B e nel solco che separa il rifugiato dal clandestino si accumulano esistenze frustrate e dolenti. Il ministro Kyenge ha detto che a Lampedusa sentiva ogni corpo ritrovato come una sconfitta, ma la nostra sconfitta più grande è quella di uccidere tutti i giorni chi cercava di costruirsi un futuro e ha trovato solo caccia all’uomo.

di Francesca De Leonardis

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *