Il fascino singolare di un tango alla fine del mondo
C’è un profilo di donna privato del suo sguardo, con una rosa sfumata tra i neri capelli dalle ciocche capricciose che, indomite, scendono fino al rosa dominante di un bellissimo vestito a fiori; e sopra quello che sembra essere una sorta di misterioso preludio figurativo leggiamo: Tango alla fine del mondo. È la copertina del nuovo romanzo di Diego Cugia, epopea affascinante di una famiglia siciliana di fine ottocento.
Tutto ha inizio nella solare provincia palermitana, in un paese dal nome seducente, Isola delle Femmine; in questa terra dove miti e leggende si intrecciano, Michele Maggio insieme a sua moglie e alle sue due figlie, «pari d’età ma dispari nel corpo e nel carattere», conosceranno il sapore aspro della privazione che nasce da un abuso, quello di un governo corrotto che li castiga, per il solo motivo di essersi uniti ad un coro di povera gente in protesta per ingiuste vessazioni. Dopo l’immediato sequestro dei beni guadagnati col sudore, i Maggio decidono come molti loro connazionali di lasciare il proprio paese, tanto amato, ma così impietoso con chi non rivendica altro che un pezzo di pane. Ma quando sono pronti per partire, qualcuno osa subdolamente guastare i loro piani. Don Tano, uomo votato al male e immerso in loschi traffici che sanno di una chiara prefigurazione della mafia odierna, si invaghisce di una delle due figlie, Diana, «la Maggio dagli occhi arabi, neri e ardenti» come quelli di suo padre. Con un abile stratagemma consegna alla famiglia solo tre biglietti, con il chiaro intento, di tenere per sé la giovane preda che tanto aveva fatto vibrare di piacere il suo corpo bramoso di carne. I Maggio salperanno ugualmente verso il Nuovo Mondo, destinazione Buenos Aires, non senza dolore e con il marchio a fuoco del rimpianto che segnerà i loro destini. A Diana invece la attenderà una tremenda via crucis; la crudele deflorazione del suo corpo per mano del suo aguzzino; le fustigazioni in un convento e l’internamento in un ospedale psichiatrico dove assisterà inerme alla morte di una sua cara compagna di viaggio. Solitudine e sofferenza induriranno il suo cuore e segneranno indelebilmente la sua delicatissima pelle, che prima di saggiare le atrocità del vivere, nuotava impavida nel mare agitato, fondendosi con esso.
Ma Tango alla fine del Mondo è anche la storia incredibile di uomo straordinario, quella di Michele Maggio dall’ingegno e l’ardore tutto italiano, che sbarcato in terra argentina, acceso da quell’osare che distingue i talenti affamati del nuovo, si sentì «smanioso» di reinventarsi una vita. Prima del commiato, compiendo un rito che lo fa sembrare un eroe omerico prima della battaglia, aveva raccolto un pugno della sua terra, così antica, con la promessa solenne di mescolarla a quella nuova e rendere la sua famiglia felice come lo era in Sicilia. Uomo audace dallo spirito rivoluzionario che in un locale dei sobborghi di Buenos Aires archiviata la sua amata fisarmonica e con in mano il nuovo strumento dalle origini teutoniche, darà l’inizio ad una nuova musica: il Tango. I suoi assoli al bandoneón si eleveranno «perentori» fino quasi ad inibire le coppie di ballerini ai quali pareva, «danzando, di disturbare un miracolo». E poi l’incontro inatteso con Blanca, la donna che più di ogni altra alimenterà come vento la fiamma della sua anima: «erano l’amore che ciascuno sogna. Un sogno che si sogna da solo».All’ombra di quest’uomo così fulgido, vive sua moglie Caterina, con la sua pazienza antica; il suo cuore si andrà consumando nell’impossibilità di frenare quel sentimento che lega Michele a Blanca «così possente che tutti gli altri se ne sentivano esclusi».
Il tanto atteso viaggio di Diana, con la sua adolescenza rubata, si realizzerà. Raggiungerà Buenos Aires per offrirci attraverso le lucide parole dell’autore una indimenticabile verità: «il dolore è una voliera dove restano intrappolati magnifici uccelli multicolori: l’amore rifiutato, il viso scomparso di una persona cara, le speranze perdute. I tormenti più profondi, grandi uccelli del paradiso, sbattono e sbattono le ali piumate contro le sbarre nel tentativo di evadere. I colpi stridenti dei loro becchi d’oro sui chiavistelli arrugginiti della memoria ci perseguiteranno. Il dolore più crudele è quello ricordato. Occorrerebbe aprire la voliera, liberarli. Una rinuncia di cui pochi sono capaci. Il dolore crea dipendenza più del vizio». Bisogna leggere per intero il racconto per conoscere se e come questa giovane donna sarà capace di disintossicarsi dalla famelica sofferenza che divora tutti gli uomini che non riescono a farne a meno, tanto da rendere loro odiosa la vita e il mondo.
Il romanzo di Diego Cugia è un libro sui moti incalcolabili dell’esistenza; sulla bellezza e sul senso della scoperta, e sulla fatica e sulla sofferenza che precedono ogni scoprire; imprevedibile come i passi incerti di chi scrive, sempre a bordo di una nave proteiforme e cangiante come la parola, che lo costringe suo malgrado, a puntare verso terre sconosciute. Un’opera destinata a tutti «i giovani, le donne e gli uomini fantastici, clandestini di ieri e di oggi, senza denari in tasca ma con un passaporto invisibile per le dogane del futuro».