Femminicidio: dalla parte dell’uomo
Stupratore, picchiatore e anche assassino. Sono molteplici i ruoli che un uomo qualunque può rivestire quando si tratta di violenza sulle donne. Negli ultimi mesi si parla molto di femminicidio anche alla luce di recenti episodi di cronaca e della ratifica del trattato di Istanbul da parte dell’Italia. Ma poco si sa degli uomini che si macchiano di simili crimini.
C’è però chi li osserva, dialoga con loro e cerca di capirli e aiutarli. Lo fa ‘Parteciparte‘, una compagnia nata a Roma nel 2008, che si occupa di promuovere l’arte come strumento di partecipazione collettiva e che si adopera molto per le problematiche di genere. La metodologia di lavoro è quella del ‘Teatro dell’Oppresso‘, una corrente teatrale che pone in scena situazioni della quotidianità che possono risultare difficili da gestire. Il fine è quello di analizzarle e cercare di farle evolvere anche con l’aiuto del pubblico. Una tecnica simile, applicata ai violenti, può aiutare a comprendere il punto di vista dell’altro, non della vittima ma del carnefice.
Lo facciamo con Oliver Malcor, regista di origine francese, che ha fatto lunga esperienza del Teatro dell’Oppresso in America Latina, Stati Uniti poi in Francia a Marsiglia, in Africa a Nairobi ed ora a Roma.
Lei adotta le metodologie del ‘teatro dell’oppresso’ a scopo formativo ed educativo per coloro che sono inclini alle violenze. Potrebbe dirci, secondo la sua esperienza, quali sono le motivazioni che spingono questi uomini ad avere comportamenti violenti?
Per me è un problema culturale, altrimenti non pretenderei di lavorare su livelli così profondi ed intimi. É la cultura, ad esempio, che insegna ai maschi a non piangere come femminucce. Cose del genere ci rendono incapaci di gestire le emozioni. Il senso di rabbia ci pervade e non sappiamo controllare la violenza. Siamo educati a reagire male, a cercare di mantenere il controllo a tutti i costi ed è il contrario di quello che dovremmo fare. É un problema di stereotipi. La cultura di genere ci insegna che la donna è fatta in un certo modo e il maschio in un altro, sin da piccoli. Questo ha delle conseguenze. Aggiungiamo la cultura del porno, per non parlare delle pubblicità e della religione che assegnano alla donna un ruolo ben definito. In un certo senso gli uomini si sentono legittimati. In carcere, i violenti si sentono vittime di una grande ingiustizia e si giustificano dicendo che la società di oggi è così, e non capiscono perché ora siano considerati delle bestie. Gli stupratori si ritrovano a morire di infamia alla stregua dei pedofili, i più odiati dalla società.
Lei qui a Roma si occupa anche di gruppi di lavoro in carcere. Come si articola il lavoro con i detenuti?
A dir la verità noi stiamo inventando o meglio ci stiamo reinventando. Non esiste un metodo, un manuale o una formula magica per lavorare con un violento. É stato fatto ancora pochissimo rispetto ad altri Paesi come la Norvegia. Qui in Italia c’è un centro specializzato a Firenze, ma i risultati sono ancora pochi. Ci siamo appoggiati poco alle altre esperienze ma abbiamo cercato di reinventare una metodologia. Partiamo innanzitutto dalla decostruzione degli stereotipi che ci sono stati insegnati. Perché queste persone si sono sentite legittimate a violentare la moglie o a stuprare un’altra donna? Cerchiamo di capire cosa c’è alla base e cosa spinge una persona ad agire così. Attraverso il teatro decostruiamo il maschile. Spesso siamo tra uomini è chi chiediamo cosa sia la mascolinità o la femminilità ad esempio. Io con il teatro ho cercato di riprodurre situazioni in cui gli uomini possono sentirsi a disagio nei confronti delle donne.
Nelle carceri avete riscontrato difficoltà comunicative con i violenti?
La comunicazione non è immediata, ero preparato a questo ma ho riscontrato che loro non vedono l’ora di giustificarsi. Persino quelli che non parlano l’italiano sanno spiegare nei dettagli il perché del loro gesto e la loro innocenza. Il 90% dei detenuti si ritiene innocente. Affermano di essere dentro perché i carabinieri hanno esagerato nel riportare le dichiarazioni, aggiungendovi particolari o parlano di un bacio frainteso da parte della donna. Io lavoro soprattutto con gli stupratori: tra loro c’è anche chi ha ucciso. La comunicazione delle volte è sottile, ci sono persone anche di livello culturale elevato. Il problema di comunicazione vero esiste tra di loro. É un problema di ascolto. Sanno esprimere un monologo giustificativo ma manca la spontaneità. Con il teatro cerchiamo di mettere da parte l’imbarazzo e di toccare emozioni meno controllate, estrapoliamo il materiale grezzo. Con le forme di comunicazione classiche ci si perde nella spirale delle giustificazioni.
Questa forma di comunicazione è simile a quella del ‘teatro forum’ che mette in scena situazioni della quotidianità dove gli spettatori sono chiamati ad intervenire attivamente. Come reagisce il pubblico? E voi in qualche modo portate alla luce i comportamenti negativi?
No, è insidioso contraddire. Fino ad ora abbiamo lavorato a Regina Coeli. Spesso eravamo in una sala di 8 metri quadrati. Lo spazio è poco e mette a disagio. Faccio più che altro domande sulla loro situazione e sulle conseguenze delle loro azioni. Ma non lavoriamo sull’evento specifico. Non ho mai messo in scena situazioni di stupro. Lavoriamo su situazioni di approccio, di separazione e su quei momenti in cui la donna diventa indifferente. In genere il problema è quello di accettare l’autonomia della donna, il fatto che lei decida per se stessa. Si ha una concezione per così dire biblica: la donna è la costoletta di Adamo. Questa è una delle giustificazioni più usate. Non si accetta il rifiuto. Per duemila anni è stato così.
Visto che si tratta di un problema culturale, come è possibile risolverlo intervenendo nelle scuole?
Oggi stesso abbiamo preparato un progetto per le scuole. Vogliamo invaderle col nostro metodo in cui crediamo fermamente. Il vantaggio di lavorare con ragazzi delle medie o delle superiori è che non hanno ancora deciso a quali stereotipi aderire. É tutto indeterminato. Fino alla genitorialità è tutto possibile.
In ultimo, le istituzioni italiane hanno dibattuto molto sul tema. In che modo sostengono iniziative come quella di ‘parteciparte’?
Ancora non mi è chiaro cosa vogliono e possono fare. Non cerco finanziamenti ma lascio che arrivino. Sono da pochi anni in Italia ma credo che bisognerebbe innanzitutto strutturare il lavoro in modo regolare. Prima ero a Marsiglia, poi a Nairobi. Lì mettevamo in scena 150 spettacoli all’anno sugli stereotipi di genere. Marsiglia è ben più violenta di Roma, ma in ogni scuola ci sono spettacoli di questo tipo dove i giovani imparano a smontare gli stereotipi e a vedere le conseguenze negative. Questo dovrebbe accadere anche a Roma. Delle volte mi chiedo se il femminicidio torni comodo alla società, come a ricordare alle donne troppo emancipate che c’è sempre qualche uomo pronto a rimetterle in riga. Se ne parla moltissimo ma poi in concreto molti centri antiviolenza stanno chiudendo. Abbiamo numeri da guerra civile e non ci si può nascondere dietro il fatto che non ci siano soldi. Lavorare sulla prevenzione è meno costoso, perciò mi chiedo se la volontà sia cosi ferma. Il rapporto OMBRA della CEDAW presentato in Parlamentato mostra che le azioni concrete ancora non ci sono. Molti Paesi, come il Brasile, l’Olanda, fanno leggi col ‘Teatro Forum’. Mi stupisco che in Italia sia ancora poco usato. Spero che un giorno si dia più fiducia al lavoro dal basso.
Speriamo.
di Maria Chiara Pierbattista