Disoccupazione al 12,2% nell’Italia fondata sul lavoro

Il dato sulla disoccupazione fornito questa settimana dall’Istat è quello che meglio sintetizza lo stato della crisi in Italia. Il numero dei disoccupati a maggio ha raggiunto il 12,2%, una soglia mai toccata neppure durante la crisi degli anni novanta, il dato peggiore dal 1977 anno d’inizio le serie storiche.

La specificità italiana tende inoltre a sottostimare il conteggio rispetto a quello di altri paesi a causa dell’alto tasso di inattivi e scoraggiati, soprattutto donne e soprattutto nel meridione, e per l’ampio ricorso alla cassa integrazione che crea una camera di compensazione per molti lavoratori in mobilità, non ancora disoccupati ma che non rientreranno mai nelle rispettive aziende. Infine, il lavoro precario e sottoccupato ha creato una zona grigia di milioni di lavoratori con reddito insufficiente e nessuna possibilità di programmazione economica del proprio futuro. La scarsità di reddito deprime i consumi interni, demolendo le molte aziende che non riescono a esportare.

Contestualizzare il dato significa aggravarlo, basti pensare a come nel primo trimestre del 2013 il saldo tra nascita di nuove imprese e cessazioni di attività è stato negativo, con 31mila aziende in meno sul territorio nazionale. Negli Stati Uniti dove la disoccupazione è diminuita, il grosso dei nuovi posti di lavoro non proviene dalle corporation tradizionali ma dalle start-up, quelle nuove imprese che qui in Italia non sono in grado di riassorbire i licenziamenti e le chiusure generate dalla crisi. Il paragone con la Germania è impietoso con un tasso di disoccupazione tedesco al 5,3%, addirittura paradossale la forbice europea con paesi come Spagna e Grecia, ormai oltre il 25%. Questa discrasia interna all’Unione rappresenta il vero spread, la disparità che rischia alla lunga di sgretolare l’Europa dall’interno più degli sforamenti del 3% sul deficit o del delta tra i rendimenti sui titoli di Stato.

Per un Saccomanni che vede una luce in fondo al tunnel per fine anno, c’è il premio Nobel Stiglitz che interpellato sulla situazione italiana ha detto di non vedere miglioramenti all’orizzonte senza una drastica inversione di tendenza rispetto alle politiche europee di austerità. In un’inaspettata convergenza di predizioni con Grillo, nelle scorse settimane perfino Mediobanca ha fatto circolare un rapporto in cui si paventa il default entro sei mesi e l’altro Ministro Zanonato parla ormai di ‘punto di non ritorno ’. L’agognata crescita, l’araba fenice del dibattito politico di cui parlano tutti i governi senza poiu riuscire a innescarla, è smentita dalle stime sul PIL riviste al ribasso anche per il 2013, in piena decrescita infelice al -1,9% dopo quasi cinque anni di crisi e otto di stagnazione. Non ci sarà nessuna ripresa mondiale cui agganciarsi per inerzia: senza un piano industriale nazionale di lungo respiro e investimenti (anche pubblici), il futuro dell’economia italiana appare come un deserto con qualche oasi d’eccellenza sempre più isolata. E pensare che per ristabilire davvero le priorità, basterebbe leggere il primo articolo della Costituzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Daniele Trovato

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