Padri separati: il dramma di vivere in roulotte
Il 29 gennaio scorso, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per <<violazione del diritto ai legami famigliari>>. Sentenza che mira dritto al cuore dei tribunali italiani, attraverso uno dei suoi innumerevoli paradossi: l’impossibilità di un padre separato di vedere la figlia con regolarità durante 7 anni. L’ammonimento sta nella mancanza di diligenza e tempestività, ragion per cui la Corte Europea dei Diritti dell’uomo invita urgentemente a <<mettere in opera misure rapide>>.
Questo è solo uno dei tanti cavilli che riguardano la separazione, specchio di una società che non ritiene tanto di tutelare la donna ma che appare un sintomo di totale passività e noncuranza, del lasciare che sia, che tanto ci piace. E a correre di pari passo con l’imparzialità delle sentenze, con il conflitto tra genitori che minano la crescita dei figli, c’è il degrado economico e sociale dell’individuo, che si ritrova a dover reinventare una vita, con gli strumenti di cui dispone, e che ai giorni nostri non bastano mai.
E’ la storia di uomini giovani e adulti, a cui al momento della separazione vengono fatte molto spesso richieste che loro stessi ritengono giuste certamente, ma a cui non riescono a far fronte in maniera da garantire a se stessi una vita dignitosa. Interviene quindi la mediazione, nel migliore dei casi, perché spesso non si è in grado di pagare un avvocato o di stilare una separazione nero su bianco, e ci si accorda così, a parole dette magari in mezzo alla strada, gridando e umiliando, nella retorica dei luoghi comuni e frasi fatte.
E in quegli scorci della ‘Roma bene’, lungo le strade che costeggiano le mura gianicolensi, scorre parallela alla vita di tutti i giorni una realtà subordinata fatta di piccole roulottes, un po’ malandate ma perfettamente organizzate, e anche munite di dettagli singolari. Bussando alle porticine in cerca di padri separati, vengo sviata da un’apparizione: si materializza davanti a me un signore con la barba lunga, in saio bianco che mi invita ad entrare in una little India che sembra aver riprodotto con estrema accuratezza, invasa da fumi e foto che ritraggono Sai Baba dalla vita alla
morte.
Esco rintronata e busso ad un’altra porta; si affaccia un uomo sulla quarantina a cui chiedo bruscamente se è separato. Mi risponde di sì, e mi chiede chi sono, chi mi ha mandato, che non posso togliergli più niente, perché non gli rimane più niente. Gli chiedo di concedermi pochi minuti, ma è sospettoso, gli occhi pieni di rabbia, mi liquida dicendo che lo stipendio non gli basta per l’assegno famigliare e il 50% delle spese mediche e di altro genere. Non può intrattenere con il figlio un rapporto completo, perché si vergogna della condizione in cui versa e centellina il suo stipendio giorno per giorno, ma non crede di poter proseguire così ancora per molto.
Più avanti busso alla terza porta: un signore di mezz’età non mi propone di entrare, ma esce tranquillamente. Vuole parlare, raccontarsi, tirare fuori tutta l’ingiustizia che ritiene di aver subito da 30 anni ad oggi.
Perché si trova in questa condizione?
Sono un pescatore, vengo dalla Sicilia, padre di quattro figli. Al mio paese mi dicevano che mia moglie era una donna di cattivi costumi, ma per me era una dea. Dopo il secondo parto inizia ad insinuarsi un uomo con la vespa, ronza intorno alla mia casa per mesi, io non capisco. La cena non è mai pronta, i miei vestiti sporchi diventano mucchi di spazzatura negli angoli di casa. Lei non si prende cura di me che lavoro, esce tutto il giorno, mi dicono che la vedono con la vespa, ma io non faccio niente. Ci sono i miei figli. Quattro anni di vita a cui mi fa male ripensare, poi un giorno
sono fuori di me, non reggo più e lascio tutto. Vado a Roma.
Come inizia la sua vita a Roma?
Dormo alla stazione il primo giorno; non so dove andare, e così anche il secondo e il terzo giorno. Vado alla Caritas e mi offrono un letto e pasti caldi per due settimane. Poi ritorno in stazione, trovo lavoro in un cinema e distribuisco pop corn e coca cola; poi un secondo lavoro, saltuario, ma non mi bastano i soldi per un affitto, riesco a mala pena a procurarmi da mangiare.
E poi si trasferisce in roulotte?
Si, circa 20 anni fa la comunità che diventa mia amica mi procura questa casa. Faccio qualche lavoretto per loro, poca roba, ma due volte a settimana mi offrono il pasto. E’ la mia famiglia ora.
E la sua famiglia in Sicilia? I suoi figli?
Non posso stare con la testa in due posti, quegli anni mi hanno tolto la vita: non sono più tornato, non ce la faccio. Mi scrivo con i miei figli, ora che sono grandi qualche volta mi vengono a trovare, mi telefonano, mi mancano, ma non posso tornare. Mia moglie ha la sua vita con l’uomo della vespa.
Mi congedo e mi dirigo verso un’altra roulotte, più curata, c’è una bicicletta legata al retro. L’uomo che esce non ha 30 anni, ma non si butta giù. Mi spiega che si tratta di una situazione momentanea, di tamponamento, che non ha altra scelta, che certamente deve mettere in secondo piano la sua vita per collaborare al mantenimento del figlio. Mi dice con un mezzo sorriso che prima della separazione si univano le forze, si tirava avanti e in due era possibile. Non ha una famiglia in grado di aiutarlo, di ospitarlo a casa e in quei pochi metri ha riprodotto il ricordo in miniatura di un’abitazione. Gli chiedo cosa ha intenzione di fare, e mi dice che vorrebbe partire, che forse all’estero ci sono più possibilità. Che forse all’estero si può ricominciare.
di Nicoletta Renzetti