Festival di Cannes: La grande bellezza di Paolo Sorrentino
Un colpo di cannone, un canto di musica sacra che echeggia nell’ assolato e deserto Gianicolo, l’autista di un bus di turisti che impreca volgarmente al telefono. Un giapponese si stacca dal suo gruppo per fotografare il panorama e cade a terra, poi l’affaccio su Roma, meraviglia e silenzio, e il titolo: La grande bellezza.
Inizia così il sesto film di Paolo Sorrentino presentato ieri a Cannes e accolto da applausi scroscianti dopo l’iniziale diffidenza ingiustificata della critica francese. Questa prima sequenza, monumentale, fatta di scene a fiato corto e già svelata qualche settimana fa, prelude all’esplosione caotica di una festa super kitsch su un attico di Via Veneto. Tra spogliarelli, alcool, esibizioni sguaiate e balli di gruppo compare il protagonista, Jep Gambardella, noto cronista mondano, un tempo scrittore, osservatore e protagonista delle notti romane fatte di lusso e vacuità. Toni Servillo più che l’interprete ne è l’anima, l’unico che potesse esprimere lo stile di un personaggio cinicamente compiaciuto della sua vita, a volte superficiale altre incantato dalle piccole cose come un bambino, un gentiluomo dalla battuta tagliente e delle massime intellettuali che all’età di 65 anni si lascia scivolare gli eccessi trovando i ricordi in un mare immaginato sul soffitto. Intorno a lui “quel chiacchiericcio” di amici, finti moralisti, moderne maschere dei feroci ambienti dei quartieri alti. Tra questi due puri, Romano e Ramona (gioco di parole non casuale) Carlo Verdone e Sabrina Ferilli, due attori simbolo di Roma, due personaggi veri, la cui innocenza sopravvive in mezzo a quell’universo decadente.
Nonostante l’imponenza del protagonista La grande bellezza è dunque un film corale e Sorrentino è un maestro nel cogliere dettagli, nel far esprimere ai suoi personaggi quello che apparentemente non vogliono mostrare, nell’accostare lampi di immagini evocative e surreali, aspetti incompatibili e paradossalmente simili, come la sfera del sacro e del religioso, anche quello a tratti grottesco a tratti genuino e povero. Il riferimento felliniano questa volta è in parte doveroso ma meno scontato se si riconduce al potere immaginifico del maestro al cui paragone Sorrentino modestamente si sottrae. Il suo è sguardo privo di giudizio. La grande bellezza non è un film sulla Roma di oggi o su un certo tipo di società. E’ la percezione di un autore sapientemente audace, un esteta della macchina da presa.
Il film è complesso ed eccessivo, ciò comporta tanti pregi quanto qualche difetto, come l’impressione che a volte sia mozzato. Come è stato già scritto probabilmente piacerà più all’estero che in Italia. Il nostro pubblico non è abituato a digerire tali opere, rare, di qualità e per una volta italiane.