Governo Letta, quando gli opposti si attraggono

Dopo due mesi di ingovernabilità, colloqui e tentati accordi finalmente ci siamo: con 453 sì alla Camera e 233 al Senato parte il governo Letta, qualunque cosa ciò voglia dire. Tra rimescolamenti di alleanze e delegazioni di poteri la confusione è legittima e i sospetti pure.

Parte il governo Letta, forte dell’appoggio di Napolitano e di una fiducia schiacciante in Parlamento, eppure la sensazione è che non arrivi alla fine dei 18 mesi che il neo Presidente del Consiglio si è dato di tempo per fare le necessarie riforme. Ci troviamo infatti di fronte a una maggioranza raffazzonata che mette insieme Pd e Pdl nell’odiato governissimo a cui il Pd aveva ripetutamente detto no e che però è risultato l’unico modo per non tornare immediatamente al voto, ancora con la vecchia legge elettorale. Larghe intese dunque, ma che legano saldamente le mani a Letta, messo sotto scacco da un Berlusconi che non vuole cedere su un punto: l’alleanza regge se si restituisce l’Imu agli italiani. Letta tentenna e il Pdl prosegue in maniera evidente una campagna elettorale che condurrà al voto non appena Berlusconi vorrà. Francesco Merlo di Repubblica ha infatti rivelato in un lungo editoriale che Gaetano Quagliariello ha ammesso: «Berlusconi ci ha imbarcati su questo gommone e poi al momento opportuno lo bucherà».

La frenesia del momento e l’ansia del futuro sono riusciti a far passare un po’ in sordina un decesso, la morte de facto di Italia Bene Comune, il programma congiunto di due partiti che ora si ritrovano su schieramenti avversi: Pd al governo e Sel all’opposizione, con buona pace di chi ha creduto alla ricostruzione di un centrosinistra. Una spaccatura precoce, per la quale Nichi Vendola si giustifica su Twitter: «Sel e Pd avevano sottoscritto patto con elettori: governare per tirare fuori Italia da berlusconismo, non per abbracciare Berlusconi».

Il tradimento nei confronti degli elettori però si consuma su due livelli, è doppio, perché non si esaurisce nell’inciucio Pd-Pdl ma sta anche nell’arbitrario “alleggerimento” del Parlamento, che perde per strada parte dei suoi poteri e delega a una Convenzione il compito di avviare le riforme istituzionali di cui il paese ha urgente bisogno. Insomma le decisioni che contano non le prendono coloro che sono stati eletti. Questo governo giovane, che abbassa a 52 anni la media d’età dei ministri, sembra essere ombra di quanto decidono i vecchi, esperti e impresentabili frequentatori delle sale dei bottoni. Tanto che tenta di ergersi a “padre costituente”, presidente della Convenzione, il solito Silvio Berlusconi, che saprebbe insegnare a una fenice come si fa a risorgere.

di Francesca De Leonardis

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