SuperBowl ai Ravens, l’abbraccio di una nazione

Gli Stati Uniti tornano ad abbracciarsi in quello che per aspettativa mediatica, ascolti televisivi e mole di denaro in gioco vale quanto una finale dei mondiali di calcio. È il Super Bowl, la finale del campionato di football. È l’evento che riunisce una nazione.

 Una nazione che per di più torna a riunirsi in un luogo diventato simbolico. E cioè in quel Lousiana Superdome di New Orleans che nel 2005 accolse migliaia di sfollati dall’uragano Katrina. Otto anni dopo quella tragedia gli statunitensi tornano a stringersi attorno alla città del blues, ricostruita da cima a fondo. E la retorica dell’abbraccio fraterno continua anche sul campo, con l’immagine di John e Jim Harbaugh che si stringono la mano. Nella storia del football americano non era mai successo che due fratelli, rispettivamente head-coach di Baltimore Ravens e San Francisco 49ers, si giocassero da rivali il premio più ambito.

Per più di quatto ore le profonde contraddizioni della società statunitense restano sospese. Circa 115 milioni di persone (solo negli Usa) sono incollate al televisore, altre 71 mila sono riuscite ad acquistare il privilegio di godersi l’evento “live”. Show fatto di sport, certamente, ma anche di politica, musica ed intrattenimento. Prima l’intervista a Obama, che discute i punti chiave del suo programma (e insiste sull’uguaglianza) e poi prova a rimediare alla gaffe sul football come sport da sconsigliare ai figli perché troppo pericoloso: «mi riferivo al campionato giovanile», s’è arrampicato. Quindi tra primo e secondo tempo va in scena il concerto di Beyoncé, che stavolta è anche brava ad evitare il goffo playback esibito al giuramento del Presidente. Infine il trionfo della creatività-di-consumo: la guerra degli spot televisivi. Un affare da milioni di dollari, pare che ne occorrano 3,5 per far mandare in onda 1 minuto di reclame (l’anno scorso c’era anche la Fiat).

Ma in mezzo al grande calderone orgogliosamente a stelle e strisce c’è soprattutto il gioco. Tecnico, tattico, fisico. Certo un po’ frazionato, troppo per i gusti degli europei. Non semplice da comprendere, vista la complessità degli schemi d’attacco. È stata una finale all’altezza delle aspettative? Decisamente sì. 34-31 il risultato finale, a vantaggio dei Ravens (secondo successo assoluto) di John, il fratello maggiore. Un divario che avrebbe potuto essere più ampio, perché Baltimore per più di metà gara riesce ad annichilire San Francisco. Merito di un Joe Flacco stratosferico, che porta i suoi addirittura sul 28-6 all’inizio del terzo quarto. Poi il black out. Vero, non metaforico: la luce se ne va per più di trenta minuti. E alla ripresa del gioco i 49ers sono un’altra squadra, tant’è che mettono a segno 3 td e 1 kick. Non bastano per vincere il sesto titolo in sei partecipazioni, ma sono più che sufficienti per rendere la partita una delle migliori della stagione. Per rendere lo show qualcosa di unico, forse eccessivo ed esagerato, da odiare o da amare, come la realtà nordamericana.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *