“E la chiamano estate”. Esagerata metafora
Festival Internazionale del Film di Roma. La sesta giornata è giù di tono. Le proposte scarseggiano così come gli eventi e le presentazioni. Viene presentato l’ultimo film in concorso e dalla reazione in sala l’analisi è univoca: avrebbero potuto risparmiarselo.
Il titolo è “E la chiamano estate” – prodotto da Nicoletta Mantovani – ma come afferma il regista Paolo Franchi “è stato usato come contrappunto”. Niente è meno azzeccato di queste parole per descrivere il film che racconta la storia di una coppia di quarantenni che si ama intensamente ma non conosce rapporto fisico. È una relazione lontana dalla convenzionalità quella portata avanti da Anna e Dino, interpretati da Isabella Ferrari e Jean-Marc Barr, entrambi noti attori del cinema internazionale ritrovatisi a recitare in una metafora esagerata pur mantenendo il loro talento. Da una parte lei, una donna amaramente affascinante, nostalgicamente bella, tristemente elegante e soprattutto innamorata. Talmente innamorata da accettare un amore oggettivamente amaro e inappagante, nonostante ricordi più volte di “sentirsi profondamente amata, unica”. Più volte in scene di nudo, Isabella Ferrari ha dichiarato di essersi sentita serenamente libera grazie al grande lavoro fatto col regista. Dall’altra parte c’è lui, Dino, “dalla personalità introversa e complessa”. Insana e malata, impaurita e lontana dagli altri. Assente. Jean-Marc Barr spiega il film meglio del demotivato regista – che il più delle volte si rifiuta di rispondere – e illumina la sala lanciando la sua personale interpretazione al confine tra ideologia e provocazione.
Fotografia bianca vicina allo sfocato – tant’è che all’inizio del film si gridava “Fuoco! Fuoco!” – e tempi morti che disorientano lo spettatore. È voluto? Non si capisce. È il linguaggio infatti a offuscare la storia già di suo poco coinvolgente. Il film si manifesta come una sorta di “seduta psicoanalitica” le cui immagini “alludono ai sogni, ai ricordi, al presente”. Lo spazio temporale è sparato su una linea curva su cui “passato, presente e futuro si mescolano rivelando il significato ultimo solo all’ultimo tassello, all’ultimo fotogramma”. Tra ricerca e sperimentazione Paolo Franchi ha dato vita a una rischiosa sperimentazione, drammatica al confine col comico, i cui interpreti non mancano di propensione e talento.